Recensione:
Bianchini: tra Venezia e Torino, un girotondo di amori ed equivoci. Se madamina si sente come Pretty Woman
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Non è facile reggersi in equilibrio sulla leggerezza non evaporando. A Luca Bianchini l’esercizio riesce nuovamente (come non ricordarne il febbrile esordio, Instant love?) in Siamo solo amici. E’ un aquilone - la commedia lungo la linea Venezia-Torino - che non gigioneggia, ma sapientemente coglie questo e quel vento, visitando calli e campielli e borghesi anse sotto la Mole (e inchinandosi di fronte a un soffio di saudade).
Tra spezie goldoniane e lapilli scovati nell’officina F&L, Luca Bianchini cuce un mondo sempre a un passo eppur distante - qui l’acrobazia - dalla macchietta, non dalla maschera, ovvero l’arte di raccontare camuffata da «vanity fair». Nel bazar umano aggirandosi con aria divertita e consapevole (dell’oliatissima trappola reality tesa a ciascuno di noi, il reality che umilia la realtà, l’autenticità): così soppesando, saggiando, orientando, elegantemente cozzando (facendo cozzare), lestamente porgendo il fazzoletto che asciughi la lacrima.
E’ una giostra di silhouette, Siamo soli amici. Luca Bianchini è come se scrivesse con le forbici. Allestito un salon, un cartamodello, di figure e figurine, vi passeggia ariosamente, ritagliando i caratteri, ora isolandoli ora mescolandoli, ora scrutandoli nell’intimo ora apparentemente dimenticandoli, affidandoli al caso. Un bricoleur di destini, Bianchini. Un torinese che ama Torino, confessa, sbiadendo il riserbo indigeno, rivelando una disposizione all’entusiasmo che ne contagia la pagina. Se solo saprà attenuare la complicità con i suoi personaggi, potrà offrire una prova di consistenza documentaria, poeticamente documentaria, sulla nostra Italia nel cuore frollata.
Siamo solo amici, no? Giacomo e Rafael, tutt’al più, a gemellarli, è «un’insinuazione di omosessualità». Loro che nell’altra metà del cielo generosamente dondolano. Giacomo-Jack, giunto in Laguna dal proustiano Ritz, concierge all’«Abadessa», «servitore» di una madamina turineisa. Rafael, anch’egli portiere, ex numero uno, ma dietro i pali, Santos e Mirasol le squadre, perdutamente innamorato di Carmelinda, regina della telenovela. Un girotondo di baci, abbracci, giocosi amplessi, sapidi equivoci, taluni arcinoti, ma vividissimi, di intatta freschezza, come le torte in faccia sul set di Stanlio e Ollio (il gioiello natalizio destinato all’amante che sarà donato, dommage, alla consorte). Un’altalena comica e quindi malinconica che subirà l’arrembaggio di Frida (una femme de joie convinta di assomigliare a Gesù, una «Pretty Woman» di Laguna) e Tamara-Tammy, cameriera al Tonga Bar, mise Lady Gaga. Quale lei, quale gozzaniano «mistero senza fine bello» infine folgorerà i nostri eroi, Giacomo-Jack e Rafael?
Luca Bianchini è una freccia rossa (rare le soste, le pause) tra piazza San Marco e il Po, da via Della Rocca, una via canapè, alla precollina. Un minuetto di caratteri. A ciascuno il suo, va da sé. Chi non ha dimenticato la donna della domenica si affeziona a Elena Barsanti, discendente - senza pretesa di esserne all’altezza - per li rami di Anna Carla. Intorno a lei, una «Madame Bovary con l’iPhone» (e poco importa se non ne ha contezza), ecco dipanarsi un ritratto «gourmant» di città: di ingegnere (marito) fedifrago in messa domenicale, di tata multilingue in caffè da Mulassano, di bignole in coiffuer... Finale (a Venezia) in gramaglie, ma è solo l’ultimo atto di un ballo in maschera, nevvero Bianchini?
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