A dieci anni l'età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D'estate si concentra una fretta di crescere. Un uomo, cinquant'anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l'abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano lo stupore del verbo mantenere, che è tenere per mano.
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Amore e giustizia, prove di futuro per due ragazzi Con De Luca la rivoluzione in riva al mare
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Erri De Luca è un orologiaio delle parole. Nella sua officina, le circumnaviga, le sfiora, le accarezza, le scompone e le ricompone, febbrilmente scoprendone l’armonia, il senso, le combinazioni che offrono. Mantenere, per esempio, ovvero tenere per mano. E’ il respiro di Il giorno prima della felicità, l’indimenticata storia di formazione napoletana apparsa nel 2009; è la fedeltà che via via si modella in I pesci non chiudono gli occhi, la fortunata fabula fresca di stampa.
Intorno a un bambino decenne (forse egli stesso, la realtà ormai sconfinata nella finzione), Erri De Luca definisce la sua idea di letteratura, una «lezione» partenopea, così puntigliosa, così prensile. Frasi «non più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle», l’«esattezza del vocabolo» (a cui addestra l’enigmistica), il suono, il sibilo, l’intuito proprio dell’alfabeto non adulterato, «aperto a ogni risveglio», come il carissimo ebraico antico.
Un fanciullo misterioso, schivo, aristocratico, spiritualmente aristocratico, seduce il lettore. Finita la prima media, rimandato in matematica, trascorre un’estate di passaggio, di maturazione, di agnizione sull’isola. Ha accanto la madre e la sorella; il padre, quarto figlio di un’americana approdata in Italia, ha obbedito al richiamo d’oltreoceano, vi si è recato in cerca di lavoro, salvo fare ritorno a casa, non sapendo la moglie sciogliere le ancestrali gomene: «... Io qua tengo tutto, fratelli, mamma, la città che ho visto bombardare e poi spalare dalla cenere quando il vulcano la coprì di quella cipria nera in onore dei miei diciannove anni...». In spiaggia vita e letteratura orchestrano un torneo. Letto il Don Chisciotte intero, il ragazzino aveva (credeva di avere) definitivamente concluso che non sussiste il verbo amare («Dulcinea era latte cagliato nel cervello del cavaliere eroico»). Se non che una coetanea risoluta («C’era in lei la fermezza che ho riconosciuto nella voce dei ciechi») gli farà mutare idea, conducendolo a riconoscere: «Ce l’ho (l’amore, ndr) e prima non c’era».
Ma I pesci non chiudono gli occhi non è una vacua girandola di batticuori. La «parabola» di Erri De Luca è, insieme, commiato e profezia. Il distacco da un mondo favoloso come il cinematografico «bianco e nero» che «dava luce alla platea dei poveri», il visionario neorealismo che «mi ha insegnato a guardare, almeno quanto le voci delle donne di Napoli mi hanno insegnato a starmene in ascolto». E la profezia di un Paese capovolto, straziato negli anni a venire, racchiusa in un episodio che solo all’apparenza si esaurisce in sé, una via Pál di mare, il ragazzino taciturno, «intellettuale», picchiato a sangue da tre «franti», «colpevole» di essere prediletto dalla giovane. Sarà lei a «medicare» il piccolo amico, mostrando il dato «essenziale nella formazione di un carattere rivoluzionario». Ossia modellando una giustizia «attenta al caso singolo», che «inventa su misura la sentenza», che, muovendo «dalla misericordia per l’offeso, perciò riesce a essere spietata». Se i «rivoluzionari» nostrani avessero, come i pesci di De Luca, tenuto gli occhi aperti, non calandovi sopra i passamontagna, evitando così di stravolgere, di sfregiare, di umiliare l’invocazione di Isaac Singer: «Io credo nella misericordia, non nel rigore della legge»...
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