Limonov non è un personaggio inventato. Esiste davvero: "è stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio" si legge nelle prime pagine di questo libro. E se Carrère ha deciso di scriverlo è perché ha pensato "che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale". La vita di Eduard Limonov, però, è innanzitutto un romanzo di avventure: al tempo stesso avvincente, nero, scandaloso, scapigliato, amaro, sorprendente, e irresistibile. Perché Carrère riesce a fare di lui un personaggio a volte commovente, a volte ripugnante - a volte perfino accattivante. Ma mai, assolutamente mai, mediocre. Che si trascini gonfio di alcol sui marciapiedi di New York dopo essere stato piantato dall'amatissima moglie o si lasci invischiare nei più grotteschi salotti parigini, che vada ad arruolarsi nelle milizie filoserbe o approfitti della reclusione in un campo di lavoro per temprare il "duro metallo di cui è fatta la sua anima", Limonov vive ciascuna di queste esperienze fino in fondo...
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Limonov, mai pensare che il Gulag non sia per te
Anna Zafesova, Tuttolibri - La Stampa
Un libro di Limonov? Per il pubblico europeo è quasi una sorpresa, come se d’Artagnan avesse impugnato la penna per diventare da personaggio di carta autore in carne e ossa, dopo che in molti l’avevano scoperto come protagonista romanzesco della biografia di Carrère. Ora si tratta di scoprire che Eduard Limonov è anche uno scrittore. Anzi, soprattutto uno scrittore. Personaggio e autore di se stesso, 70 anni narrati dall’infanzia alla vecchiaia, attraverso lo stalinismo, lo squallore delle periferie sovietiche, l’underground moscovita, l’emigrazione a Parigi e New York, il ritorno in Russia, la lotta politica, la prigione, e soprattutto la passione («faccio qualunque cosa con passione», confessa).
La casa editrice aveva già pubblicato parte dell’opera di questo indomito scrittore-rivoluzionario, e ora presenta uno dei capitoli più drammatici della Limonoviana: Il trionfo della metafisica, il diario del carcere dove lo scrittore finisce per una vicenda oscura di lotta armata con il suo partito nazional-bolscevico, forse più un’avventura letteraria che una vera sovversione, che però porta Limonov – imprigionato con il suo cognome all’anagrafe, Savenko – in una delle realtà più crude e meno romantiche che l’esistenza può offrire: la colonia penale N° 13 della regione di Saratov.
Quasi mezzo secolo dopo Solzenicyn, Limonov entra in un mondo classico della letteratura russa. Per scoprire che non è cambiato quasi niente: la violenza quotidiana, l’umiliazione come metodo di «educazione», la depersonalizzazione totale, il lavoro coatto, la fame, l’impunità di un sistema perverso che usa il terrore, la delazione, la sottomissione per fare dei carcerati i carnefici l’uno dell’altro, nel disperato tentativo di guadagnarsi un giorno senza botte. Un modellino di Stato totalitario, sopravvissuto alla sua stessa ragione d’essere ideologica: il Gulag era la macchina per distruggere qualunque barlume di pensiero libero, nella Russia putiniana Limonov è l’unico detenuto «politico», circondato da una variopinta folla di briganti, assassini e ladri. La suddivisione in «politici» - intellettuali, onesti, vittime innocenti - e «criminali» brutali e rozzi non esiste più, sono tutti «reietti del mondo russo».
Il penitenziario «modello» viene visitato regolarmente dalle commissioni per i diritti umani, ma dietro il villaggio Potiomkin dei roseti e dei concorsi canori lo Stato «picchia i condannati, non li fa dormire, li spossa con il lavoro, e si copre dicendo che noi dobbiamo essere educati». Quando il ceceno Ruslan racconta torture, stupri e omicidi nella sua terra durante la guerra, è una storia che potrebbe sconvolgere gli emissari europei di qualche Ong, ma nella colonia N° 13 è ordinaria amministrazione, nulla di diverso da quello che accade lì dentro, o là fuori, «l’assolutismo, la violenza, il dispotismo, la sottomissione di ogni singolo giorno».
Le file nere dei detenuti allineati nell’ossessione nazionale della marcia che perseguita un russo dall’asilo, sono per Limonov la metafora di uno Stato-caserma, dove anche l’ego dello scrittore si ridimensiona lasciando spazio al coro del popolo della prigione. Per Solzenicyn il Gulag era un’esperienza da martire, dalla quale uscire rafforzati. Per Shalamov un inferno infame che non poteva che corrompere l’essere umano. Per Limonov, nella Russia degli anni 2000, un’esperienza quasi comune, come dice un vecchio detto russo, «mai pensare che la miseria e la galera non siano per te».
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